Le indagini (e le forzature) dell’amministrazione Trump sul Russiagate avvicinano Washington e Roma. Che può pensare di unirsi alla Five Eyes Alliance con la sponda di Londra
William Barr è il sessantanovenne procuratore generale degli Stati Uniti con un inizio di carriera da analista della CIA che sta cercando di far luce sul Russiagate e sullo Spygate. In pratica, ha avuto mandato dal presidente Donald Trump di capire se e come l’intelligence statunitense e quella di altri Paesi occidentali hanno tramato contro di lui e a favore della sua rivale alle presidenziali del 2016, Hillary Clinton: infatti, dice il capo della Casa Bianca, l’affaire che lo vedrebbe coinvolto con la Russia di Vladimir Putin altro non è che una macchinazione del «deep State».
Ci sono due indagini dell’amministrazione Trump sul Russiagate. La prima, guidata dall’Ispettore generale del dipartimento di Giustizia, Michael Horowitz, è incentrata sulla «sorveglianza» della campagna presidenziale di Donald Trump nel 2016 e sul presunto abuso del Foreign Intelligence Surveillance Act da parte dell’allora presidente Barack Obama. La seconda è quella di Barr, che nelle ultime settimane ha coinvolto anche l’Italia. Trump teme che l’amministrazione Obama abbia tentato di incastrarlo «andando in altri Paesi per cercare di nascondere quello che stavano facendo», come spiegato lui stesso durante la conferenza stampa congiunta con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla Casa Bianca. E «l’Italia potrebbe essere uno di questi» Paesi, ha avvertito.
Quel poco che sappiamo
Sappiamo che il procuratore Barr è stato due volte in Italia quest’estate per incontrare i vertici dei nostri servizi segreti. Sappiamo che il capo della CIA, Gina Haspel, ha visitato la nuova sede delle spie italiane pochi giorni dopo il passaggio a Roma del segretario di Stato Mike Pompeo, capo della diplomazia statunitense e fedelissimo di Trump. Una visita di cortesia, si dice: per organizzare il viaggio di Mattarella negli Stati Uniti. Peccato però che non sia la CIA a occuparsi di questa materia, come ho spiegato su Diplomaticamente.it. Sappiamo ancora che gli Stati Uniti vogliono sapere che fine ha fatto il professor Joseph Mifsud, l’uomo che avrebbe detto a George Papadopoulos che i russi erano in possesso di materiale «sporco» sulla Clinton, cioè le famose mail.
Questo è tutto. Non abbiamo certezza del resto. Dobbiamo aspettare le indagini di Horowitz e Barr, anche per capire se il premier Giuseppe Conte ha raccontato tutto, e tutta la verità, durante l’audizione di mercoledì davanti al Copasir.
Intanto, però, possiamo rispondere a una domanda che in molti si pongono: perché tanto clamore in Italia per quelle che alcuni hanno definito «ingerenze statunitensi» mentre in Australia e nel Regno Unito si è detto e scritto ben poco sulla vicenda? Come ha spiegato bene Lorenzo Bagnoli sul Fatto Quotidiano, «le visite di Barr per conto di Donald Trump non hanno riguardato solo l’Italia. Quest’estate Barr ha visitato anche Gran Bretagna e Australia. I tre casi hanno tra loro una differenza fondamentale: mentre in Italia c’è stato un grande clamore mediatico, in Gran Bretagna e Australia le polemiche si sono spente subito». E dire che Barr ha parlato con i funzionari dell’MI6, cioè i servizi segreti britannici che si occupano di affari esteri, per cui lavorava Christopher Steele, l’autore del controverso dossier Stelle, una raccolta di 17 rapporti su Trump compilata nel 2016 dall’ex ufficiale e pubblicata integralmente da BuzzFeed nel gennaio 2017. Da quei documenti è emersa la storia della golden shower: Trump avrebbe ordinato a due prostitute di urinare nel letto dell’hotel moscovita in cui, settimane prima, dormirono gli Obama in segno di sfregio nei confronti di Barack e Michelle, siglando così il rapporto di amicizia con il leader del Cremlino.
Con l’Australia la situazione è forse ancor più tesa, visto che Papadopoulos accusa Alexander Downer, diplomatico australiano di stanza nel Regno Unito, ex leader del Partito conservatore, di essere «uno sgherro della Clinton», «una spia», uno che aveva lo scopo di far cadere lui e Trump. È proprio a Downer che Papadopoulos aveva raccontato quanto dice essergli stato riferito da Mifsud sul materiale compromettente clintoniano. È da lì che parte tutto, l’intera cospirazione, secondo la teoria trumpiana.
Le implicazioni
Questa è una sintesi della sintesi della sintesi di ciò che sappiamo. Che è molto poco. E temo che non sia molto di più di quanto sapremo alla fine (quando e se mai ci arriveremo) di questa storiaccia. I miei due centesimi: andremo molto lontani dall’appurare la verità, intanto però si sarà consumata una resa dei conti negli Stati Uniti, tra attuale e precedente amministrazione e all’interno delle agenzie di intelligence; ma anche in Italia, dove la faccenda viene cavalcata da ogni parte e a ogni livello con un solo scopo, quello di far fuori l’avversario – politico, diplomatico, funzionario o giornalista che sia.
Allora perché ve ne parlo? Perché c’è un risvolto, a cui accenna Bagnoli, che merita di essere approfondito in chiave rapporti italobritannici. Le inchieste dell’amministrazione Trump stanno facendo scricchiolare la Five Eyes Alliance, struttura di scambio di informazioni di intelligence tra cinque alleati (Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Canada e Nuova Zelanda) nata dopo la Seconda guerra mondiale. Ridiamo la parola a Bagnoli: «In termini di conseguenze politiche, è difficile immaginare che cosa possa accadere nei prossimi mesi, in particolare a Donald Trump. È chiaro che tutta questa vicenda mostra come la sua amministrazione abbia forzato i protocolli pur di ottenere certe informazioni che gli servono in quanto futuro candidato alla Casa Bianca, più come come presidente degli Stati Uniti. Ma non è detto che l’impeachment riesca ad affondarlo. La partita è ancora lontana dal chiudersi. Il grand tour diplomatico di Barr, alla fine, potrebbe anche rendere inaspettatamente ancora più solide le amicizie con Italia, Gran Bretagna e Australia». Che cosa intende dire Bagnoli? Che alla fine, se davvero c’è stato uno scambio d’informazioni, se davvero sono state forzati i protocolli e se poi il risultato dell’impeachment non affonda Trump, le relazioni tra i Paesi saranno ancora più salde.
Limes definisce la Five Eyes Alliance «un patto di sangue» che vincola le intelligence dei cinque Paesi. Basti pensare che lo scambio avviene «senza restrizioni», eccetto materie esplicitamente escluse dall’accordo o quando una delle due parti ne faccia richiesta. «È intenzione di ciascuna parte di restringere il più possibile queste eccezioni», specifica il comma b dell’articolo 4 dell’intesa. Avete visto Pine Gap, le serie Netflix? Se non l’avete fatto, recuperatela: racconta molto bene le attività nella base australiana gestita assieme agli Stati Uniti nell’epoca dei droni e delle inferenze cinesi.
Un’applicazione di questo «patto di sangue»? Ecco cosa scrive Limes: «L’alleanza dei Five Eyes è stata e rimane un elemento imprescindibile della geopolitica spionistica statunitense. Nata come alleanza tra le agenzie Comint anglosassoni ora copre tutto lo spettro delle azioni d’intelligence e di azione clandestina. Il ruolo giocato, non senza polemiche, dal GCHQ inglese nell’individuare i bersagli per i droni americani impegnati nella “guerra al terrorismo” ne è un esempio eloquente».
Che cosa può cambiare con la Brexit
Come scriveva la rivista specializzata diretta da Lucio Caracciolo, è prematuro comprendere cosa accadrà al patto dopo il Brexit. «Ma una possibile incognita sulla tenuta del patto angloamericano deriva dal tentativo della City di Londra di diventare la piazza di riferimento in Occidente per gli investimenti in valuta cinese. Una mossa che potrebbe contribuire a indebolire la primazia del dollaro e a far scaturire una crisi seria tra Stati Uniti e Regno Unito, con possibili ricadute sulla loro collaborazione spionistica».
Washington sta puntando molto sull’alleanza, anche a costo di mettere in secondo piano la NATO. L’ha spiegato in un’intervista di pochi mesi fa a Limes George Friedman, fondatore e amministratore delegato di Geopolitical Futures. Il titolo è eloquente: «La NATO è morta. Viva i Five Eyes!».
È così che arriviamo all’Italia. Sappiamo che Roma, e in particolare le grandi aziende di Stato della difesa, stanno mantenendo caldi i rapporti con Londra (e con Washington) per superare la fase d’incertezza legata alla Brexit. Come scrive Bagnoli, la forzatura del protocollo da parte dell’amministrazione Usa può rappresentare un motivo di rafforzamento delle relazioni tra i Paesi. Si è parlato in diverse occasioni di un allargamento della Five Eyes Alliance, l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy era molto interessato ad andare oltre la collaborazione che già i Cinque hanno con le intelligence dei Paesi alleati. Non c’è mai stata la svolta e il discorso è stato rinviato a data da destinarsi. Ma questa collaborazione sul caso Russiagate/Spygate potrebbe rappresentare l’occasione per Roma, via Washington e poi Londra, di garantirsi un framework speciale per la condivisione delle notizie di intelligence che vedrebbe l’Italia avvicinarsi ancora di più al Regno Unito, di cui è rimasta orfana a livello europeo partendo quindi la sua sponda più importante e influente nelle dinamiche che vedono sfidarsi a Bruxelles l’asse Nord-Sud e il centro a trazione francotedesca.