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Eni e Vaticano sono le chiavi italiane per contare in Siria

di Marco Lucchin
08/11/2019
In Mediterraneo
4 minuti di lettura
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Diamo il benvenuto su Diplomaticamente.it a Marco Lucchin. Che inaugura la sua collaborazione con un quadro sulla situazione in Siria dopo l’offensiva di Erdogan. Vincitori e vinti, e non solo: le opportunità per l’Italia passano da energia e Santa Sede. Ma serve quella strategia che spesso manca.

Nel clamore di queste settimane, abbiamo letto e ascoltato tanto sulla situazione nel Nord della Siria e sull’invasione turca. Ora però, che è passato qualche giorno, possiamo provare a tirare le prime conclusioni. 

La prima impressione è che, nonostante le dichiarazioni più o meno allarmate, è difficile che non sia stata un’operazione concordata preventivamente tra Russia, Stati Uniti e Turchia e almeno in parte notificata anche a Siria, Iran e curdi siriani. Per tre ragioni: velocità, coordinamento delle forze e risultati ottenuti.

Possiamo già parlare di vincitori e vinti, considerando comunque un bilancio che, almeno per ora, appare tutto sommato abbastanza equilibrato.

Un cuscinetto per il Sultano

La Turchia, innanzitutto, si crea un’area cuscinetto profonda qualche chilometro in territorio siriano per evitare la saldatura tra le regioni curde turche e quelle siriane. Ma soprattutto, paventando ai curdi oltreconfine la minaccia di un conflitto diretto, li spinge ad accettare il ritorno delle truppe governative siriane nella regione facendone cosi tramontare le velleità indipendentistiche, altrimenti pericoloso magnete per quelle in patria.

I curdi siriani, dunque, perdono l’opportunità di poter formare lo Stato autonomo tanto agognato. Probabilmente però questa sarebbe potuta essere un’aspirazione eccessivamente ambiziosa, considerando che gli altri Paesi in cui questo popolo è presente, come appunto Turchia, ma anche Iran e Iraq, avrebbero comunque fatto di tutto perché questo progetto non si realizzasse, temendo sempre forti ripercussioni interne. I curdi sono riusciti, resistendo strenuamente, a sopravvivere a Daesh e alla guerra civile. E se giocano bene le loro carte potrebbero tornare ad avere non solo ampi margini di autonomia in Siria ma anche un importante ruolo nella rifondazione del Paese.

Il dittatore siriano Bashar Al Assad, invece, ha l’occasione di provare a completare la riconquista del Paese, a partire da una regione grande quasi un terzo del territorio nazionale che comprende importanti regioni petrolifere. Quelle in cui però dovrebbero rimanere ancora dei drappelli di truppe americane.

Il ritiro Usa e l’opportunità russa

La Russia poi diventa l’arbitro della regione, andando a prendere il posto degli Stati Uniti come forza d’interposizione tra turchi e curdi al confine. Posizione però che sarà impegnativa da mantenere nel futuro, a causa dell’estrema volatilità della regione. Da grandi poteri derivano anche grandi grattacapi.

Il presidente statunitense Donald Trump, invece, può iniziare il ritiro delle sue truppe dal territorio siriano, concepito sia come appoggio ai curdi per combattere Daesh sia come mezzo per impedire all’Iran di costruire un corridoio terrestre sino al Mediterraneo, passando per il Nord Iraq sciita, la Siria e il Libano, tutti Paesi dove esercita una notevole influenza. La decisione potrebbe essere nata sia da considerazioni elettorali di breve termine sia dalla convinzione che, in un futuro non troppo lontano, Turchia, Russia e Iran si controbilanceranno e consumeranno a vicenda, in un’area che oramai non è comunque più cosi strategica come in passato.  

La situazione per l’Italia

Gli unici attori che sembrano essere stati esclusi dal processo decisionale sono i Paesi europei, in uno scacchiere importantissimo per la nostra sicurezza, partendo proprio dalle crisi umanitarie scatenate da questi conflitti. Se da un lato è molto difficile prendere decisioni unitarie a livello europeo, dall’altro l’Italia ha degli interessi indiscutibili nella regione oltre all’immigrazione: non dimentichiamoci, infatti, che guidiamo un contingente militare in missione di pace in Libano e che diversi Paesi, come la Turchia, sono a tendere nostri competitor strategici.

Anche le nostre aziende sono in prima fila: l’Eni, per esempio, è molto presente nel mediterraneo orientale e, solo un anno e mezzo fa, la Turchia stessa ha mandato delle navi da guerra per impedire all’azienda di effettuare prospezioni al largo della costa cipriota. Il nostro Paese ha quindi tutto l’interesse ad avere un ruolo nell’area, utilizzando la propria appartenenza all’area europea, i rapporti con gli Stati Uniti, o anche gli storici legami con il Vaticano. In Siria è difatti presente una delle comunità cristiane più antiche del mondo e la Santa Sede è sempre rimasta presente sul terreno, anche durante le fasi più acute della guerra civile, come la battaglia per Aleppo, tenendo un canale di osservazione e comunicazione aperto. Con la ricostruzione poi ha assunto un ruolo importante nelle infrastrutture di assistenza e le iniziative caritatevoli. È dunque un patrimonio di contatti e canali che sicuramente non manca all’Italia, ma è indispensabile che sviluppi una strategia estera decisa e coerente se vuole difendere i propri interessi nazionali.

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